10 Cloverfield Lane



10 Cloverfield Lane” (id.) è un film del 2016 diretto da Dan Trachtenberg, sceneggiato a tre mani da Josh Campbell, Matthew Stuecken, Damien Chazelle e Prodotto da J.J. Abrams e Lindsey Weber. Personalmente mi fido di J.J. Abrams. Abrams è una macchina da guerra dell’intrattenimento. I suoi lavori possono non piacere, ma è innegabile che sappia tenere uno spettatore incollato allo schermo.



Ecco come ho conosciuto “10 Cloverfield Lane”: casualmente ho visto il trailer su YouTube – guardatelo, è montato molto bene – ho controllato gli orari del cinema e la sera sono andato a vederlo. Pensavo avrei visto un filmetto dimenticabile. Invece sono rimasto colpito.

La trama è questa: Michelle (Mary Elizabeth Winstead) ha appena lasciato il marito. Mentre guida lontano da lui ha un incidente d’auto. Si risveglia in un rifugio sotterraneo dove Harold (John Goodman) le rivela di averle salvato la vita e che l’intera umanità è stata sterminata da un attacco batteriologico. Assieme a loro c’è il giovane Emmet (John Gallagher Jr), che ha aiutato Harold a costruire il rifugio. Harold non sembra molto a posto con la testa. Vaneggia di alieni, russi e mente su dove si trovi sua figlia. Michelle, spaventata, decide di scappare.
Detta così la trama sembra riduttiva, ma se l’approfondissi vi rovinerei la sorpresa. I motivi per guardare questo film sono molti. La regia è pulita, precisa. Trachtenberg osa con la macchina da presa quanto basta per far notare che non è il solito mestierante. Il film si svolge praticamente tutto in interni e ha solo tre personaggi. Solo tre personaggi per tutto il film: è una cosa difficilissima da fare.
Piccolo appunto sulla struttura di una sceneggiatura. Il primo atto, definito “impostazione”, serve, appunto, per impostare i personaggi. Dura fino al primo punto di svolta, cioè quando la vita dei personaggi viene scardinata da quello che potrebbe essere il suo naturale divenire per dare vita al corpo del film (cioè i restanti due atti). “10 Cloverfield Lane” ha un primo atto e primo punto di svolta a) interessanti b) molto belli. Di quelli che non vedevo da tempo. Il primo atto è interamente muto. Non sentiamo mai la voce della protagonista, ma capiamo cosa stia succedendo grazie alle immagini. Qui direte, “Beh, è cinema, certo la storia viene raccontata per immagini”. Avete ragione. In teoria. Perché spesso gli sceneggiatori si dimenticano di questo punto. Pensate al primo atto di “Zona D’Ombra” (Concussion, 2015). Capite la differenza tra un primo atto raccontato per immagini e un primo atto didascalico. Nel primo caso si parla di Cinema. Nel secondo di… roba brutta. Nel primo atto viene presentato anche Harold. Vediamo solo le sue mani riflesse nello specchietto retrovisore di un pick-up. Tutto qui. Ma quando poco dopo Michelle ha l’incidente, sappiamo già chi sia stato. Non c’è stato bisogno di parole. Solo di due inquadrature. Quelle giuste.  L’incidente in sé rappresenta il primo punto di svolta. Ed è fenomenale, perché non c’è un modo più aggressivo di togliere un personaggio “dalla sua strada” che buttarlo letteralmente fuori strada.

L’atto successivo è interamente ambientato sotto terra. È fantastico perché per tutto il tempo non possiamo fare a meno di chiederci se Harold abbia ragione o meno. Potrebbe averla come potrebbe non averla e quando lo scopriamo – circa a metà film – la storia va avanti benissimo. Non vi dico come, ma va avanti benissimo.

Due parole su Harold. Dopo aver visto “I Flintstones” non credevo che John Goodman avrebbe potuto spaventarmi. Invece ci riesce eccome. La sua pericolosità è palpabile. È un personaggio che può esplodere da un momento all’altro e fare molto, molto male. La sua presenza è ingombrante, ansiogenante. Non solo visivamente, anche a livello uditivo. Goodman non solo riempie lo schermo schiacciando gli altri personaggi, ma ha dei problemi di respirazione. Quando non parla o in un controcampo non è inquadrato, noi sappiamo che è lì. Una costruzione non da poco. Detto questo, di tanto in tanto il personaggio cade un po’ nello scontato. Non sempre, ma in alcuni dialoghi si percepisce come la sua “follia” sia stata studiata a tavolino. I dialoghi di tanto in tanto hanno questa pecca. C’è stato il tentativo di elaborare monologhi quasi autoriali, ma il tentativo è fallito. Fanno il loro lavoro, spiegano come si sentono i personaggi, ma non sono abbastanza ben scritti da portare il film a un livello superiore.
Trachtenberg si dimostra un regista di classe nell’ultima parte del secondo atto. Harold finisce con la faccia in una pozza d’acido. Ovviamente, da bravi cultori del genere, tutti in sala sapevamo che Harold non sarebbe morto sul corpo, ma sarebbe tornato per tormentare la povera Michelle. In effetti è quello che succede. Ma se Trachtenberg fosse stato privo di classe, avrebbe fatto delle belle inquadrature sul volto deturpato di Harold. Invece non lo fa. E non perché gli mancavano i soldi per un bel make-up. Semplicemente perché avrebbe esagerato. Il massimo che vediamo è il viso di tre quarti di Goodman – che fa comunque paura – e il suo braccio in un condotto di ventilazione. Tutto qui.
Nel terzo atto, ancora una volta ci chiediamo se Harold abbia avuto ragione oppure no. Lo scopriamo nuovamente, ma vi posso assicurare che tutto quello che succede nel terzo atto fa meno paura di Goodman nella sequenza in cui mangia il gelato.
Il film si gioca tutto sulla domanda “è così oppure no?”. A livello meta-cinematografico succede la stessa cosa. Perché il finale sembrerebbe il classico finale americano dei film del genere. Solo che poi nell’ultima inquadratura un lampo ci fa vedere una cosa (ripeto, non posso dire nulla) che porta lo spettatore a chiedersi “ah, oppure no?”.
10 Cloverfield Lane è come dovrebbero essere tutti i film destinati al “consumo”. Non scontati e ben diretti. Non è un film da vedere una seconda volta – magari sì, ma solo per Goodman – ma è un film che non ti fa uscire arrabbiato dalla sala. Soddisfa, ecco cosa. Ci sono molti film per il “consumo” che non lo fanno. Pensate a Michael Bay.

Oscar Francioso



 




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